di Giordano Golinelli, ACRA-CCS
«[…] Darrell, diceva sempre che ci sono tre tipi di uomini: quelli che vivono davanti al mare,
quelli che si spingono dentro il mare e quelli che dal mare riescono a tornare, vivi.
E diceva: vedrai la sorpresa quando scoprirai quali sono i più felici»
(A. Baricco, Oceano mare)
Quanti di voi si avventurerebbero su una piccola imbarcazione per percorrere migliaia di chilometri in alto mare? Nessuno, probabilmente. Eppure c’è qualcuno che lo fa.
Il Senegal è un bellissimo paese dell’Africa occidentale. Affacciato sull’Oceano Atlantico. Ha da sempre una importante tradizione ittica, così importante che la tipica piroga senegalese è all’origine del nome stesso del paese, che in wolof (la lingua più parlata) significa “le nostre piroghe”. Dal mare i senegalesi hanno sempre tratto una parte importante dell’apporto proteico della loro alimentazione e ancora oggi nelle zone costiere in tantissimi si dedicano alla pesca.
Ma negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Il pesce ha iniziato a diminuire, ogni anno di più, tanto che i pescatori hanno dovuto spingersi sempre più al largo per trovare pesce. Finché qualcuno – andando sempre più in là – dalla costa senegalese è riuscito ad arrivare fino alle Canarie, in Spagna. Da quel momento a molti si accesa una lampadina: è possibile partire dalle coste del Senegal e arrivare in Europa. È un viaggio lungo, pericoloso, quasi impossibile… ma ce la si può fare.
Ci ha provato anche il figlio di Yayi Bayam Diouf, una donna appartenente a una famiglia di pescatori di Thiaroyesurmer, un quartiere alla periferia di Dakar. Il marito è uno di quelli che alle Canarie ci è arrivato e il figlio uno di quelli che ci ha provato, uno di quelli che non ce l’ha fatta. Lei da allora si batte contro l’emigrazione clandestina, sensibilizzando soprattutto i giovani a non mettere a repentaglio la propria vita per raggiungere illegalmente l’Europa.
Dal 2006 a oggi l’associazione di Yayi ha fatto molta strada e non ha mai smesso di sensibilizzare anche noi europei sulle cause che spingono tanti giovani a cercare la via dell’emigrazione illegale. Tra le tante una: gli accordi di pesca tra Europa e alcuni Stati dell’Africa occidentale che dagli anni ’80 del secolo scorso permettono a navi europee di accedere alle acque territoriali senegalesi per pescare il pesce che finirà sulle nostre tavole.
Lo ha raccontato molto bene un documentario di Cafi Mohamud e Luca Cusani, Cry sea, un mare di lacrime che ha ripercorso la storia dei tanti “branzini” che partono dalle coste africane per finire nei nostri piatti, spesso a nostra insaputa. Effettivamente quando li compriamo al mercato sull’etichetta non c’è scritto “pescato in Senegal” ma “Zona cattura n. 34”, che al consumatore finale non dice nulla. Il documentario porta la testimonianza di tanti pescatori senegalesi che lamentano una caduta vertiginosa del pescato e la tentazione di molti di mollare tutto ed emigrare in Europa.
La prossima volta che sentirete qualcuno dire: “Cosa vogliono i senegalesi a casa nostra? Noi non siamo mica andati a casa loro a rompere…” invitatelo a cena, cucinate un branzino al sale… e raccontategli la storia di Yayi.