Nel corso della storia la fotografia si è rivelata uno strumento indispensabile nella documentazione del territorio e nello studio delle sue trasformazioni.
Marco Maggioli, professore ordinario di Geografia allo IULM di Milano, propone una riflessione su questo tema, utile alla preparazione per il concorso “Fotografi di classe 2018: I luoghi dell’incontro. Gli spazi della socialità e del dialogo nell’Italia di oggi”. Il concorso è promosso dall’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (AIIG), in collaborazione con Deascuola e con la Fondazione Italia Patria della Bellezza.
Il concorso è aperto alle scuole di ogni ordine e grado. Il regolamento e la modulistica per la partecipazione sono sul sito www.aiig.it. È possibile inviare le immagini fino al 20 aprile 2018.
Il rapporto tra rappresentazione/interpretazione fotografica e geografia si può ricondurre a due questioni di fondo: l’accostamento dell’immagine fotografica a quella cartografica e l’attenzione al tema del paesaggio.
La complessità del rapporto tra culture visuali e geografia non viene approfondita adeguatamente fino alla fine degli Ottanta del Novecento. Poi, a partire dalla metà degli anni Novanta, anche sotto la spinta del dibattito acceso dalla cosiddetta “svolta iconografica” nell’ambito degli studi culturali (Lindón, Hiemaux, 2010), diversi orientamenti di ricerca delle scienze sociali iniziano ad approfondire criticamente i reperti visuali come fonti documentarie per la ricerca sociale (Bignante, 2011). Di conseguenza, l’area di studio nota come “visual studies” assume un profilo più definito, attirando l’interesse di studiosi di varia estrazione disciplinare.
L’analisi e l’interpretazione delle fonti fotografiche si rivelano così uno strumento utile nell’indagine sulle trasformazioni territoriali, paesaggistiche, urbane o rurali, e anche un osservatorio su idee, teorie, concetti e metodologie della disciplina.
Cartografia e fotografia
Se nel Rinascimento l’interesse della classe media per le riproduzioni cartografiche svolgerà un ruolo centrale nella comunicazione delle conoscenze – reali o meno – su luoghi ed eventi nuovi e a volte strani (Woodward, 2002), la nascita e la diffusione della fotografia dapprima eserciteranno un ruolo nel definire punti di vista stereotipati di colonizzatori e pubblico occidentale (Palma, 1995; Mancini, 1998; Maggioli, 2001; Rossetto, 2004) e poi produrranno una complessiva “messa in paesaggio” del mondo, un “effetto paesaggio” (Mondada, 1992; Vecchio, 2009).
Le fotografie, così come le cartografie, assicurano in qualche modo il possesso, il controllo e il dominio dello spazio, rivelandosi strumenti in grado di formare le coscienze e orientare l’opinione pubblica. Tuttavia Claude Raffestin evidenzia che “L’occhio del fotografo è condizionato da una fisica e da una metafisica, che cancellano molti elementi del territorio, che di conseguenza non vengono rappresentati” (Raffestin, 2005, p. 85).
Fotografia e cartografia sono dunque il frutto di una catena di “scelte”, razionali o meno, operate dai singoli e il cui insieme sarà evidente nel caso della fotografia coloniale (Mancini, 1998 e 2000). È da questo momento che “la fotografia inizia a svelare, ma anche a mettere ordine, a categorizzare. Trasmette conoscenza, che è una forma non secondaria di controllo e appropriazione, e lo fa con un’autorità e una capacità dimostrativa assolutamente inedite” (Palma, 1995, p. 83).
Questa idea di una rappresentazione fotografica che, al pari di quella geografica e cartografica vetero-positivista (Vecchio, 2009), veicola una conoscenza “scientifica”, restituendo una testimonianza esaustiva, fedele, imparziale e definitiva della realtà, si alimenterà per oltre un secolo.
Denis Cosgrove, in un suo volume del 1990, inserisce un capitolo dal titolo La macchina fotografica e il paesaggio, dove, indicando come “la macchina fotografica abbia giocato un ruolo importante nel declino della pittura figurativa”, afferma che “la fotografia aveva un’integrazione più stretta con il paesaggio, un’integrazione che, nonostante tutta la sfida della pittura, per alcuni aspetti dava luogo al modo tradizionale di vedere il paesaggio. All’epoca essa diede allo stesso tempo al soggetto individuale la possibilità di un controllo visivo sulla realtà esterna – consentendogli di registrarla per consumo puramente personale, soggettivo – attribuendo tuttavia all’immagine fotografica quella oggettività, quella precisione scientifica nel riprodurre il mondo che i paesaggisti dei primi anni del diciannovesimo secolo avevano cercato così ardentemente” (p. 236).
In altri termini, il “nuovo” strumento della fotografia utilizzerà le modalità di messa in scena di quello più vecchio (la pittura) prima di trovare una sua originalità, ma lo scambio di tecniche tra pittura e fotografia, che caratterizzerà la rappresentazione moderna, avverrà in entrambi i sensi. Al cambiamento delle modalità tecniche di rappresentazione corrisponderà il cambiamento della rappresentazione stessa (Raffestin, 2005).
Fotografi-geografi, geografi-fotografi
Nonostante la “freddezza” e lo “scetticismo” che accompagneranno l’uso della fotografia nella ricerca geografica, si assisterà in seguito a un frequente scambio di ruoli nel processo di costruzione della narrazione di senso sul paesaggio.
I fotografi – come nel caso delle fotografie di paesaggio di Gabriele Basilico (Berque, 2009) – utilizzeranno il “soggetto paesaggio” come momento di espressione del proprio sguardo: “La fotografia di Basilico non è solamente di un’ampiezza e di un’acutezza incomparabilmente superiori; si vede subito che qui il paesaggio è strutturato, caratterizzato, qualificato molto più fortemente”. In tutti gli stadi di realizzazione dell’opera l’artista ha “lavorato” in modo tale che, invece dell’insignificante cliché del turista, abbiamo qui verosimilmente un paesaggio: qualcosa cioè che ci commuove, perché la nostra sensibilità vi si trova, vi si ritrova, in contatto con alcuni motivi che l’autore ha saputo mettere in valore” (id., p. 164).
I geografi – da Olinto Marinelli a Giotto Dainelli (Mautone, 2000), da Aldo Sestini (Cassi-Meini, 2010) a Elio Migliorini (Mancini, 1996), da Mario Fondi (Maggioli-Fusco, 2010) a Eugenio Turri – utilizzeranno invece l’immagine fotografica dapprima quale corredo iconografico ai loro studi e successivamente, con un’intensità crescente, quale oggetto di riflessione (Farinelli, 1980; Mancini, 2000; Bonollo, 2000; Rossetto, 2004, Guarrasi, 2006; Vecchio, 2009; Giorda, 2009).
Per altri versi infine, come non pensare a una delle immagini simbolo di questo rapporto? Il noto dagherrotipo stereoscopico Lezione di geografia (The Geography Lesson) di Antoine François Jean Claudet, del 1851, nel quale un uomo e cinque bambine si raccolgono attorno a un globo, a un libro e a un volume fotografico, mostra come tra le loro mani siano presenti i materiali necessari per la conoscenza del mondo: il globo offre il modello scientifico, il libro suggerisce l’immagine letteraria, la fotoincisione contribuisce alla resa visuale del tutto. The Geography Lesson fonde e sintetizza cartografia, letteratura e arte, inserendo la fotografia in quel processo di acquisizione, ordinamento e diffusione dell’informazione geografica, così come prefigurato dalla cultura del XIX secolo. Metafora, il dagherrotipo, delle molteplici relazioni tra fotografia, viaggio e geografia.
La fotografia partecipa dunque a pieno titolo alla costruzione delle geografie soggettive e i viaggiatori-fotografi, che dalla seconda metà dell’Ottocento iniziano a dotarsi delle strumentazioni tecniche necessarie, riportano immagini non tanto e non solo per un uso personale, quanto per una più ampia distribuzione presso un pubblico occidentale (Maggioli, 2001).
Foto di copertina: La spedizione del geografo Giotto Dainelli in Tibet, 1930 (Fonte: Picture Library De Agostini)