Non solo Ucraina. Anche se le cronache ci riportano quotidianamente solo i fragori della guerra alle porte di casa, oggi i conflitti “ufficiali” nel mondo sono più di cinquanta. Focolai che non solo generano nell’immediato distruzione e morte, ma che provocano conseguenze sociali ed economiche di lungo periodo. Un fenomeno, quello bellico, che la comunità internazionale tenta di prevenire e limitare con il diritto internazionale e le missioni di peacekeeping.
Guerra diffusa
La parola “guerra” si presta a diverse interpretazioni e attualizzazioni: dal conflitto geopolitico aperto e dichiarato fra due o più Stati, come nel caso di Russia e Ucraina, allo scontro fra gruppi etnici, sociali o religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari, come avviene in molte parti del mondo (Israele e Palestina, Nigeria, Messico, Pakistan e India).
Le sfumature sono molte, e il risultato è un pianeta disseminato di focolai più o meno devastanti, più o meno conosciuti. Indicativa è l’espressione “guerra a bassa intensità“, un’estensione del vocabolario bellico per indicare quelle operazioni militari che vengono condotte in maniera limitata e mirata, senza degenerare in uno scontro aperto tra schieramenti definiti (si pensi alla situazione di perenne violenza e instabilità in alcuni Paesi africani come Ciad, Mali, Repubblica Centrafricana).
La carta mostra, con una colorazione più scura, le aree in cui attualmente sono in corso dei conflitti armati.
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Equilibrio precario
Il quadro non è confortante, ed è reso ancora più drammatico dai segnali di nuove crisi che nel 2023 potrebbero evolvere in conflitti aperti.
Secondo International Crisis Group, una delle principali organizzazioni non governative che si occupa di monitoraggio e prevenzione di conflitti, nel 2023 i punti caldi del pianeta da monitorare con attenzione sono: Ucraina, Armenia e Azerbaigian, Iran, Yemen, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e Grandi Laghi, Sahel, Haiti, Pakistan, Taiwan.
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Fughe
Si fugge dal proprio Paese per la povertà, la fame e anche per il clima, ma soprattutto si fugge per la guerra. Le conseguenze dell’instabilità generata dai conflitti sui flussi migratori sono state evidenti, nella loro portata e drammaticità, in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino. In quell’occasione sono approdati in Italia migliaia di cittadini ucraini in fuga dai luoghi di guerra e hanno reso concreto un concetto talvolta lontano e astratto.
L’anno scorso l’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) stimava in 100 milioni il numero di rifugiati costretti a fuggire da conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani e persecuzioni. Una cifra esorbitante, se si pensa che ogni rifugiato lascia dietro di sé casa, lavoro, famiglia, una rete di relazioni che con la sua partenza si perdono indebolendo il tessuto sociale ed economico di terre già di per sé fragili.
In alcuni casi, la comunità internazionale ha dimostrato di sapersi attivare per accogliere e sostenere le persone in fuga da situazioni a rischio (si pensi alla politica di accoglienza della Polonia nei confronti della popolazione ucraina), ma – come ha dichiarato l’alto commissario ONU per i rifugiati, Filippo Grandi – “gli aiuti umanitari sono un palliativo, non una cura: per invertire questa tendenza, l’unica risposta sono la pace e la stabilità”.
L’ONU e i Caschi blu
Se sono ancora molte le guerre in atto, distribuite in ogni angolo del pianeta, ci si può consolare guardando agli sforzi internazionali per raggiungere e conservare la pace.
Nonostante in molte situazioni abbia dimostrato limiti e inadeguatezza, l’ONU svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione e nel contrasto alla guerra. I Caschi blu e le loro operazioni di peacekeeping alimentano la speranza di una pace globale e l’utopia di una forza militare che difenda l’umanità dalle ingiustizie.
Questa forza, che dipende dal Dipartimento per le operazioni di pace, è impegnata nelle aree del pianeta in cui la stabilità politica è fortemente compromessa con il compito di mantenere una situazione di equilibrio e consentire alla popolazione di vivere in condizioni di sicurezza.
Nati per evitare lo scoppio di conflitti, i Caschi blu presenti sul territorio hanno uno status di neutralità e imparzialità, e non sono autorizzati all’uso della forza, se non in casi estremi di legittima difesa. Nel tempo, agli originari compiti di controllo del territorio se ne sono aggiunti altri, indirizzati alla promozione e alla protezione dei diritti umani.
Oggi le missioni di paecekeeping promosse dalle Nazioni Unite sono 12.
Fare Geo
- Tra le guerre in corso, sceglietene una e approfondite gli aspetti che la riguardano: quando è scoppiata, chi sono i contendenti, quali sono le cause, qual è l’entità dei danni sia materiali (in termini di vittime e patrimonio), sia sociali (rifugiati) ed economici (povertà) che ha provocato, chi si sta impegnando per risolvere la crisi. Preparate poi una sintetica presentazione multimediale, corredata di carte e dati.
- Quanti tipi di guerra conoscete? Ogni conflitto bellico ha radici diverse, motivate da contrasti geopolitici, storici, economici, etnici, religiosi. Provate a classificare le guerre in corso secondo questi criteri e fate una riflessione generale.
- L’ONU, l’istituzione predisposta a vigilare sulle relazioni internazionali tra gli Stati, è sempre più al centro di polemiche/valutazioni negative riguardo l’efficacia del suo operato. Fate una breve ricerca sugli obiettivi principali delle Nazioni Unite e sulle critiche che vengono loro mosse. Confrontati con i compagni: quale soluzione proporreste per riformare l’ONU?