Etichette e Made in: siamo sicuri di cosa compriamo?

Etichette e Made in: siamo sicuri di cosa compriamo?

Proseguiamo nel nostro viaggio nel mondo della moda e dell’abbigliamento. Dopo aver seguito il percorso di una maglietta di cotone, questa volta cerchiamo di mettere a fuoco il tema delle etichette “Made in” per evidenziare un altro punto debole e talvolta ingannevole del mercato dei vestiti. Tutti abbiamo provato la sensazione, in un negozio di abbigliamento, di avere per le mani un buon prodotto solo perché il brand aveva un familiare e rassicurante “sound” nostrano o perché vi era applicata l’etichetta “Made in Italy”. Succede troppo spesso di associare un nome, un simbolo o uno slogan a concetti come sostenibilità e qualità. Purtroppo, nella maggior parte dei casi questa associazione è illusoria e chi la sfrutta commercialmente lo sa molto bene.

L’Italian sounding

Nella promozione di prodotti commerciali può capitare di incontrare parole, immagini e riferimenti che evocano l’Italia nei suoi aspetti più piacevoli e conosciuti. È il fenomeno dell’Italian sounding, quel familiare e rassicurante “suono italiano” che viene utilizzato dal marketing delle aziende per indirizzare la volontà di acquisto, ma che talvolta ha ben poco a che fare con la filiera produttiva del nostro Paese.

Siamo in presenza di una strategia promozionale che compromette la trasparenza nei confronti del consumatore, lasciando immaginare una realtà che non corrisponde ai fatti. L’immagine dell’Italia viene sfruttata commercialmente come sinonimo di qualità, genuinità, creatività.

Questo succede in particolare nei settori in cui l’Italia è riconosciuta leader a livello internazionale, cioè principalmente nella moda e nell’agroalimentare. Qui il fascino del “Made in Italy” consente di instillare l’assoluta certezza di un acquisto di valore anche quando di valore non ce n’è affatto.

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La moda è un veicolo internazionale del “Made in Italy”, un valore che viene sfruttato per mettere in commercio con questo marchio anche capi di abbigliamento estranei al livello qualitativo per cui questo comparto industriale è famoso all’estero.

Una filiera poco trasparente

La realtà è che in molti casi, anche per i prodotti contrassegnati come “Made in Italy”, la quasi totalità del processo produttivo si compie all’estero. È una scelta dovuta ai bassi costi di manodopera e materie prime, che tra l’altro è spesso avvalorata dall’assenza di norme relative all’ambiente e alla tutela dei lavoratori. Solo quando i semilavorati raggiungono un certo step nella catena produttiva possono entrare in Italia per operazioni più semplici ed elementari.

Questo accade, per esempio, con capi di abbigliamento realizzati quasi interamente in Paesi come Bangladesh, Vietnam o Cina, e che poi arrivano in Italia solo per l’assemblaggio o l’apposizione dell’etichetta finale. Così come, in campo alimentare, esistono in commercio sughi industriali che riportano nomi e bandiere italiane, ma che utilizzano pomodori importati da Cina o Sudamerica.

Tutto ciò è possibile grazie a un regolamento europeo che permette di etichettare un prodotto come “Made in” anche se una parte sostanziale della sua lavorazione non avviene nel Paese dichiarato. E proprio su questa lacuna legislativa agiscono le grandi multinazionali, producendo e distribuendo merci in cui la garanzia di qualità associata al “Made in Italy” è sconfessata dalla natura poco trasparente del processo produttivo. Una regolamentazione più chiara e rigorosa potrebbe aiutare a contrastare il fenomeno, imponendo criteri più stringenti per l’utilizzo di questa etichetta e incentivando la tracciabilità della filiera.

La distribuzione del fenomeno

La distribuzione del fenomeno dell’Italian sounding è principalmente concentrata, come già detto, nei settori dell’alimentare e della moda. Secondo recenti studi, il 60% dei casi si registra nel comparto agroalimentare, dove nomi come “parmesan” o “sugo italiano” vengono utilizzati all’estero per prodotti che non hanno alcun legame con il nostro Paese. Il settore della moda, invece, rappresenta circa il 30% dei casi, ma ha un impatto altrettanto significativo a causa del notevole valore economico di questo comparto industriale.

Questa pratica danneggia non solo l’economia italiana, ma anche la fiducia dei consumatori. Tuttavia, non mancano esempi virtuosi: marchi come Brunello Cucinelli o Eataly hanno costruito il loro successo proprio sulla trasparenza della filiera, garantendo una produzione autenticamente italiana o dichiarando chiaramente l’origine delle materie prime utilizzate.

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L’Italian sounding dà un valore aggiunto a prodotti di dubbia provenienza.

Una soluzione possibile

Garantire una filiera interamente italiana è una sfida impossibile in un mondo così competitivo, soprattutto per quei marchi che rendono il “Made in Italy” una garanzia, cioè le piccole e le medie imprese. I costi di produzione in Italia sono significativamente più alti rispetto a quelli di molti Paesi esteri, e le normative sul lavoro non lasciano quel margine di profitto garantito altrove.

Tuttavia, una soluzione ci sarebbe. È possibile infatti che le aziende, seppur delocalizzate in Paesi che rendono il marchio più competitivo a livello economico, adottino una filiera sostenibile e trasparente dove l’origine di ogni fase del processo è chiaramente indicata al consumatore.

Cosa possono fare i consumatori?

Alla luce di queste considerazioni, come consumatori è bene attrezzarsi per effettuare acquisti sicuri e consapevoli. Prima di recarsi in negozio, per esempio, è utile informarsi sulla qualità, sostenibilità ed eticità del marchio che si intende comperare. Sul web, inoltre, esistono siti (per esempio Good On You) che si dedicano a rendere trasparenti le attività dei brand – dai più noti a quelli di nicchia – in materia di sostenibilità. Infine, è fondamentale prestare la dovuta attenzione alle etichette e non lasciarsi attrarre acriticamente da scritte quali “Made in italy” o “capo sostenibile”.

In conclusione, il valore del marchio “Made in” non si misura solo nella sua capacità di evocare qualità, ma nella trasparenza e nella fiducia che riesce a trasmettere. Difendere l’autenticità del “Made in Italy” non significa soltanto proteggere un’etichetta, ma tutelare un sistema di valori che mette al centro la sostenibilità, la tradizione e, soprattutto, il rispetto per i consumatori e i lavoratori.

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L’etichetta riporta il Paese di produzione, anche se spesso il processo produttivo si svolge per gran parte in un contesto estero.

Fare Geo

  • Sul sito Good On You cerca il nome di 3-4 brand di abbigliamento che conosci. Sono considerati sostenibili? Quali criteri sono utilizzati? Quali strategie, secondo te, potrebbero adottare per raggiungere un punteggio migliore?
  • Non solo vestiti. Il fenomeno dell’Italian sounding riguarda anche la filiera agroalimentare. Dai un’occhiata in dispensa o nel frigorifero e analizza le etichette di qualche alimento. È facile trovare le informazioni che stai cercando? Perché? Noti delle certificazioni che rendono più facile classificare il prodotto? Quali?
  • Spesso, per i cibi processati, esistono etichette con una lunga lista di ingredienti di cui non è specificata la provenienza. Discutete in classe su quante e quali informazioni un’azienda o un brand dovrebbero condividere con i consumatori per renderli capaci di fare una scelta consapevole. 
  • Come consumatori e consumatrici, tutti noi abbiamo il dovere di informarci: prima di acquistare il tuo prossimo capo di abbigliamento, cerca online informazioni sul brand che intendi comprare e verifica la provenienza dei materiali con cui è stato fatto. 

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