
Proseguiamo la serie di contributi dedicata al commento e alla lettura di dati geografici, pensati per accompagnare gli studenti e le studentesse alla scoperta di temi importanti per lo studio della Geografia. Nei numeri e nei dati più recenti cerchiamo risposte per esplorare i rapporti tra umanità e ambiente, geopolitica, cultura, economia e sostenibilità, pronti a trovare delle sorprese piccole e grandi.
La cronaca ci parla quotidianamente di conflitti e scontri armati in diverse parti del mondo. Ma quante sono le guerre in corso? Da che cosa sono provocate e in quali zone si concentrano? Rispondendo a queste domande delineeremo una geografia dei conflitti, che ci può aiutare a riflettere sulle situazioni di instabilità e di violenza distribuite sul nostro pianeta.
IL DATO
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Oggi nel mondo sono in corso 59 conflitti armati più o meno intensi e, come spesso affermava papa Francesco, si può parlare addirittura di una “Terza guerra mondiale a pezzi”. È il numero di guerre più alto dopo la Seconda guerra mondiale, con una tendenza crescente negli ultimi anni: il mondo è diventato meno pacifico.
Questi eventi bellici coinvolgono 92 paesi, quasi la metà di tutti gli Stati del globo, e hanno provocato lo sfollamento di oltre 100 milioni di persone dai loro luoghi di origine. L’Africa è l’area geografica con la maggiore concentrazione di conflitti armati.
Che cos’è un conflitto armato?
Secondo la definizione dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), un conflitto armato è una controversia che coinvolge governi e/o territori in cui l’uso della forza armata tra due parti (di cui almeno una è il governo di uno Stato) provoca almeno 25 morti in battaglia in un anno solare. Il “conflitto armato” è anche denominato “conflitto statale”, in contrapposizione al “conflitto non statale”, in cui nessuna delle parti in guerra è un governo.

Molti conflitti contemporanei sono, in realtà, guerre civili o conflitti asimmetrici che coinvolgono gruppi armati non statali (come i jihadisti nel Sahel o i cartelli del narcotraffico in Messico), ma che hanno un impatto devastante.

Perché così tanti conflitti?
Le cause di questa preoccupante proliferazione di conflitti armati sono molteplici.
- La distribuzione e l’accesso a risorse naturali come acqua, petrolio, gas, minerali o terra fertile è spesso una causa scatenante o un fattore di prolungamento dei conflitti. Ultimamente l’approvvigionamento delle terre rare ha costituito un motivo di tensione e scontro nell’Africa equatoriale.
- Anche il controllo di posizioni o aree strategiche rappresenta un motivo di conflitto, come nel caso dei contrasti armati lungo stretti marittimi, canali, rotte commerciali o confini (per esempio il Mar Nero o lo Stretto di Hormuz).
- Sono spesso fonte di instabilità anche le dispute territoriali che riguardano la definizione dei confini, complicate talvolta dalla presenza di gruppi etnici divisi dai confini statali.
Tra le cause più legate al contesto contemporaneo vanno poi ricordate la vigorosa spinta all’evoluzione tecnologica che si è registrata in ambito militare negli ultimi anni, causa prima dell’impennata delle spese militari per un rapido adeguamento degli arsenali bellici, e la fluidità degli equilibri geopolitici mondiali con la nascita di nuove alleanze strategiche tra i Paesi emergenti e una certa riconfigurazione dei rapporti di forza tra le grandi potenze, con gli Stati Uniti non più dominatori incontrastati della scena mondiale.
La tecnologia al servizio della guerra
La rivalità tra gli attori globali sta alimentando una vera e propria corsa agli armamenti incentrata sulle tecnologie più avanzate, come i sistemi governati dall’intelligenza artificiale.
Un elemento che ha radicalmente alterato il modo di condurre una guerra è l’uso dei droni. Questi sistemi aerei senza pilota si sono diffusi enormemente grazie alla loro relativa semplicità di realizzazione e al basso costo operativo. I dati indicano una crescita esponenziale: dal 2008, l’utilizzo militare dei droni è aumentato di ben il 1400%.

Lo scenario geopolitico
Anche i mutamenti negli scenari geopolitici hanno contribuito al propagarsi dei conflitti armati. Il sistema internazionale, infatti, sta vivendo una transizione da un contesto unipolare, storicamente dominato dagli Stati Uniti, a uno scenario multipolare, dove più soggetti si contendono l’influenza e il primato globale.
Un certo indebolimento dell’influenza statunitense, oppure un suo relativo disinteresse in questioni locali, ha lasciato spazio a potenze regionali e a gruppi armati non statali per intervenire con maggiore libertà in ambiti poco controllati o di scarso rilievo internazionale.
Parallelamente, potenze come la Cina, la Russia e la Turchia si sono attivate per ritagliarsi un ruolo preminente, consolidando alleanze e creando zone di influenza sempre più estese.
Il Global Peace Index
Queste tendenze sono monitorate da vicino da istituti di ricerca come l’Institute for Economics and Peace (IEP), che annualmente pubblica il Global Peace Index (GPI).
Il GPI è un rapporto di riferimento che classifica 163 Stati (pari al 99,7% della popolazione mondiale) in base al loro livello di pace interna ed esterna.
L’indice si propone di misurare lo status della pace attraverso tre fattori chiave:
- il livello di sicurezza sociale interna;
- l’entità dei conflitti in corso, sia interni che internazionali;
- il grado di militarizzazione complessiva di un Paese.
Alcune tendenze
Dall’ultima analisi del GPI emergono diverse tendenze significative, in particolare l’aumento della conflittualità a livello geopolitico. Questo fenomeno è evidente nel fatto che circa 60 Stati, negli ultimi due decenni, hanno visto un peggioramento nei rapporti con i Paesi confinanti.
Un altro dato allarmante è legato alla deterrenza nucleare: ogni Stato in possesso di armi nucleari ha mantenuto o addirittura ampliato il proprio arsenale dal 2022.

Un conflitto dimenticato
Analizzando l’ultimo ranking fornito dall’Istituto, le posizioni meno pacifiche sono occupate da Sudan, Ucraina e Russia, insieme a Congo, Yemen, Israele e Palestina.
Quello in Sudan, in particolare, è un conflitto armato dalle conseguenze particolarmente gravi. Iniziato nell’aprile del 2023, tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), ha provocato decine di migliaia di vittime e uno dei più grandi esodi di sfollati interni e rifugiati al mondo.
Si tratta di un conflitto dalle cause complesse, in cui la crisi economica si intreccia alle motivazioni ideologiche delle due fazioni in lotta e agli equilibri geopolitici della regione, dettati anche dall’attrattiva esercitata dalle risorse naturali sudanesi (soprattutto oro e petrolio). Va poi ricordato che il Sudan riveste in quell’area un ruolo strategico a causa del suo affaccio sul Mar Rosso, poco al di sotto del Canale di Suez.
Sullo sfondo la decennale guerra locale nel Darfur, una vasta regione occidentale del Sudan, dove il controllo di acqua e terre – risorse messe in crisi dalla crisi climatica – provocano atti di violenza, unitamente alla repressione del governo centrale nei confronti delle popolazioni non-arabe della zona.
Secondo le Nazioni Unite le vittime hanno superato le 150.000 e il rischio di epidemie e carestia è altissimo. Su una popolazione di circa 46 milioni di abitanti, oltre la metà ha bisogno di assistenza umanitaria, mentre 16 milioni di sfollati hanno cercato di sfuggire alle violenze all’interno del Paese o nei Paesi confinanti, rifugiandosi nei campi gestiti dall’Onu e dalle organizzazioni umanitarie.
I Paesi più pacifici e la situazione dell’Italia
All’estremità opposta della classifica, si conferma la leadership dell’Islanda come lo Stato più pacifico al mondo (per il diciassettesimo anno consecutivo). Contribuiscono al primato le politiche di uguaglianza di genere, estremamente avanzate, e la solida rete di servizi pubblici di alta qualità.
Seguono al secondo e terzo posto l’Irlanda, che negli anni ha saputo trasformarsi da terra di conflitti a simbolo di neutralità e accoglienza, e la Nuova Zelanda, che garantisce la sicurezza interna grazie a leggi severe sulle armi. Nelle prime posizioni si collocano anche Austria e Svizzera, a confermare la stabilità pacifica dei Paesi dell’Europa occidentale (otto dei dieci Paesi più pacifici del mondo si trovano qui).
L’Italia si colloca al 33° posto, a causa del peso della criminalità organizzata e di una scarsa fiducia nelle istituzioni. Ma a giustificare questa posizione non brillantissima, sta soprattutto il fatto che il nostro Paese fa parte di quel gruppo di democrazie occidentali che figurano tra i maggiori esportatori di armi, tra cui Francia, Svezia, Paesi Bassi, Germania e Norvegia.
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